Un gioiello romanico blindato
Mi trovo a Calvi Risorta, cittadina del Casertano erede dell’antica Cales, la prima colonia romana in Campania, strategicamente importante per il controllo delle vie d’accesso dalla Campania al Lazio e al Sannio, famosa per il suo vino, il Caleno, che rivaleggiava col Falerno e lo Statano, e per il suo artigianato relativo alla produzione di attrezzi agricoli e di ceramiche, i rinomati vasi caleni a vernice nera, lisci o a rilievo. Quanta storia è passata da qui, quante guerre e devastazioni, quanto avvicendarsi di popoli, fino alla decadenza iniziata con l’abbandono, alla fine del II secolo d. C., di parte dell’abitato. E secoli dopo il saccheggio indiscriminato degli scavatori clandestini che ha depauperato il territorio, arricchendo musei e collezioni private di mezzo mondo. Sì, c’è un po’ di Cales sparsa per il pianeta. E pensare che qui, dove l’antica città aspetta ancora di tornare alla luce, intatta se non fosse per l’autostrada del Sole che malauguratamente taglia a metà il sito, proprio qui stentano a decollare le iniziative per una sua valorizzazione che potrebbe incentivare il turismo, con una apprezzabile ricaduta economica (si parla di un progetto volto alla costituzione di un parco archeologico e di un museo nel locale castello angioino-aragonese).
Fatto sta che a Cales solo sporadici scavi sono stati fatti dall’Ottocento ad anni recenti, riportando alla luce due complessi di terme, un teatro, un edificio templare e poco altro, insieme a ricchi corredi votivi. Purtroppo la città romana mi si è negata: ho trovato i ruderi recintati e poco visibili, oltre la rete di protezione, a causa di una rigogliosa vegetazione. Peccato! M’interessava soprattutto visitare quel teatro “sperimentale” che fu tra i primi a collaudare il sistema della cavea sostenuta da arcate invece che appoggiata su un declivio, all’uso greco. Mi rifaccio allora, guidato dall’amico Massimo, con la città medievale, il cui monumento più cospicuo è la concattedrale dedicata all’Assunta, eretta verso la fine dell’XI secolo, nel passaggio dal dominio longobardo a quello normanno, e più volte rifatta nelle epoche successive.
Questo gioiello romanico, dichiarato monumento nazionale, oggi appare isolato, lontano dal centro abitato e a pochi passi dai resti del castello. Affiancato da un massiccio campanile cinquecentesco, conserva abbastanza all’esterno, reso austero dalle mura in tufo grigio, l’aspetto medievale; l’interno invece, luminoso per l’apertura di finestroni settecenteschi, appare trasformato dagli interventi barocchi che hanno sostituito o incorporato le primitive colonne, e al posto del severo soffitto orizzontale creato una volta a botte e vela. Preziose testimonianze del primitivo tempio rimangono il pulpito e la cattedra intarsiati di marmi e di mosaici. E specialmente la bellissima cripta dove riposano le reliquie di san Casto martire, primo vescovo di Cales e compatrono della diocesi di Teano-Calvi. Geloso custode di questi tesori d’arte, riportati a nuovo splendore dopo i restauri resi necessari dal terremoto del 1980, è il prof. Antonio Santillo, parroco della parrocchia di San Casto nella concattedrale, che per proteggere il tempio, già vittima in epoche passate e recenti di furti, l'ha "blindato" con antifurto collegato alle campane e alle forze dell'ordine, arrivando anche a trasferire all'interno la lastra di sarcofago di età longobarda, un tempo inserita su uno dei portali laterali della facciata: uno dei pezzi più prestigiosi della produzione scultorea in area capuana ovvero di quella regione che aveva preso il nome di Langobardia Minor.
La nostra visita si conclude sotto il presbiterio, nel suggestivo spazio della cripta sorretta da 21 svelte colonne di granito cipollino: provengono da Cales, superstiti testimonianze dell’antica città che ora posso dire di avere, in qualche modo, “ritrovato”.